PUBLIC HISTORY

A cura di Francesco Garzillo e Giusy Esposito

Nel corso degli anni, le nuove generazioni si sono sempre approcciate alla storia attraverso professori, maestri, corsi universitari, rendendola una materia che gli alunni, e di conseguenza le nuove generazioni, hanno imparato a considerare distante da loro. Pertanto la storia non indica più una serie di fatti, avvenimenti, personaggi, che hanno cambiato il mondo fino a renderlo quello che vediamo oggi, ma una storiella da raccontare a memoria per far felice qualcuno. L’avvento dei social, però, ha rivoluzionato parecchie cose, tra queste il modo di fare storia.

Ma attraverso cosa? Qui entra in gioco la definizione di “uso pubblico della storia”. Habermas nel 1986 provò a spiegare come, dopo l’arrivo dei mezzi di comunicazione di massa, per molti storici, la materia e i relativi racconti atti alla sua divulgazione, stessero perdendo il loro significato e stessero assumendo un linguaggio sempre più popolare ed accessibile a tutti. Questo generò nella comunità degli storici la paura di una scomparsa della storia come vera e propria scienza, a discapito di una storia sempre più di uso pubblico e denaturalizzata della sua essenza.

Le nuove generazioni considerano lontana la storia da loro. Un esempio lampante sono le festività e le giornate nazionali del nostro calendario sociale. Anche queste date devono essere considerate, come ci dice Silvio Lanaro, una prova di uso pubblico della storia da parte dello Stato, ovvero l’inventare una tradizione per ricordare un evento legato alla storia del nostro Paese al fine di creare un’identità nazionale.

Questo perché al giorno d’oggi sono sempre di più i ragazzi che non sanno il motivo per cui non vanno a scuola il 25 aprile (data casuale) o ignorano totalmente il suo significato per il nostro Paese. Questo rende le suddette celebrazioni fini a loro stesse.

Ed è in questo modo che diventa fondamentale il social media. Magari il ragazzino felice, dal momento in cui non è andato a scuola, legge su Instagram un post di una pagina che segue, la quale gli spiega il motivo per cui, quel determinato giorno, ha potuto dormire più del solito. I mezzi di comunicazione di massa, per definizione, hanno lo scopo di informare, divulgare, rendere noto e sono lo strumento più forte per svolgere questo lavoro ai giorni nostri. Allo stesso tempo sono anche i compagni di vita delle nuove generazioni.

Entrando nell’ottica in cui siamo continuamente sottoposti a innumerevoli contenuti digitali e audiovisivi, è opportuno rivalutare i media sotto questo punto di vista: per molte generazioni antecedenti alla nostra, i social sono sempre stati visti come un “luogo” pieno di spazzatura digitale e senza alcuno scopo formativo. In tempi recenti, però, le varie piattaforme online hanno visto un moltiplicarsi di contenuti relativi alla divulgazione storica. Dunque, la cultura, in questo caso la storia, esiste sul web, bisogna solo saperla cercare.

Lo stesso vale per le piattaforme di contenuti di intrattenimento come serie Tv e film, le varie Netflix, YouTube o la stessa RaiPlay svolgono un ruolo fondamentale, avendo la capacità e soprattutto la possibilità di istruire attraverso l’utilizzo pubblico della storia. Possiamo, quindi, considerare le serie tv, i post di Instagram e i documentari riguardanti la storia come metodo alternativo o di accompagnamento ai manuali. Non è un caso che, durante i regimi totalitari, i primi metodi di controllo delle masse sono la censura dei prodotti audiovisivi e il riadattamento dei libri di storia nelle scuole.

In sintesi, dove non arriva la scuola con il suo arcaico modo di fare storia, potrebbe arrivare il social, al fine di diminuire la distanza tra la storia sui libri e la realtà che vivono le generazioni di oggi.

Allo stesso tempo sono comprensibili le preoccupazioni di Habermas, in quanto la storia potrebbe facilmente diventare oggetto di distorsioni o di secondi fini, diversi da quello divulgativo. Sotto questo punto di vista scuola e social media hanno uno scopo in comune più subdolo e nascosto: il controllo. Entrambi, chi da secoli e secoli, chi ai giorni nostri, costruiscono le generazioni in base a quello che sceglie lo Stato in cui si applicano. Inevitabilmente, diventando a portata di tutti, la storia si concede a invenzioni e storpiature classiche dei social.

Le generazioni moderne possono selezionare, in base alle proprie credenze politico religiose o alle proprie preferenze in merito ad un determinato periodo storico trattato in classe, i contenuti audiovisivi di cui fare esperienza. Non solo questo accrescerebbe la cultura dei ragazzi del nostro Paese ma affinerebbe in loro la capacità critica e di reputare quali fonti storiche ritenere affidabili e quali quelle frutto di distorsioni.

Fatto ciò, la macchina dell’uso pubblico della storia riprenderà a muoversi alimentata dai giudizi, dalle opinioni, giuste o sbagliate, che daranno vita ai dibattiti di cui l’uso pubblico della storia ha bisogno.

“La storia siamo noi, la storia entra nelle stanze e le brucia”, scriveva De Gregori, e quale modo migliore per la storia di entrare nelle stanze della gente, se non attraverso i social?

 

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